domenica 25 aprile 2010
La moglie sbagliata di Mahajan Karan

lunedì 19 aprile 2010
Letteratura nelle lingue Indiane
Sunil Deepak
Questa breve relazione vuole presentare una panoramica generale sullo sviluppo della letteratura nelle lingue indiane. Mi soffermerò su due punti chiave:
I legami tra la letteratura indiana e la sacralità
Il ruolo della letteratura nel dare voce ai gruppi più oppressi ed emarginati, soprattutto le donne e le caste degli intoccabili
Dopo l’indipendenza dell’India, nel 1947, sono emersi diversi scrittori indiani che scrivono in inglese e molti di loro sono ben conosciuti anche in Italia. Questa tendenza di scrivere in inglese ha avuto particolare sviluppo negli anni novanta e spesso i loro libri sono tradotti in varie lingue e ottengono successo. Tra questi ci sono scrittori come Salman Rushdie, Arundhati Roy, Anita Desai, Amitabh Ghosh, Vikram Seth, Vikram Chandra, ecc. I libri di quasi tutti questi scrittori sono disponibili nella biblioteca qui accanto. [Si sta parlando nella Sala Borsa di Bologna]
Gli autori indiani che scrivono in inglese appartengono quasi sempre alla media o alta borghesia e rappresentano le caste più alte. Molti di loro vivono in occidente. I mondi dei loro libri, i protagonisti e le società raccontate, affrontano problemi della media e alta borghesia metropolitana. Esiste una tradizione molto più vasta di scrittori indiani che si esprimono nelle lingue indiane e rimangono più o meno sconosciuti in Italia e in occidente. Essi parlano di mondi ancora più tradizionali e più vicini alla realtà della vita indiana, forse per questo sono anche meno comprensibili ai lettori occidentali. La mia relazione riguarda questi scrittori.
Si crede che la scrittura sia nata circa 2.500 anni A.C. nella mesopotamia. Dall’altra parte più o meno nello stesso periodo sono nate scritture anche in altre culture come quelle indoeuropee, quelle cinesi e quelle egiziane. Anche le prime scritte indiane risalgono alla stessa epoca, come evidenziato dai reperti trovati nelle rovine di Harappa e Mohanjodaro, dove si trovano i pittogrammi, ancora non decifrati. Si pensa che questa cultura si sia persa intorno a 1800 a.c. Poco dopo appaiono i primi reperti della cultura indoeuropea nella scrittura chiamata Brahmi. Le lingue derivate dal Brahmi, tra le quali Sanskritto, Hindi, Bengali, Gujarati, ecc. sono oggi le lingue dell’India.
Ma è necessario avere la scrittura per avere la letteratura? Come possiamo definire la tradizione orale millenaria conservata negli antichi testi della cultura indiana? Alcuni dei più antichi testi indiani sono il risultato di questa tradizione orale, dove le successive generazioni hanno, probabilmente, aggiunto o modificato parte dei testi. Questi primi testi sono strettamente legati alla sacralità e comprendono i quattro Veda e le Upanishad. Mentre i veda presentano le preghiere, la descrizione dei riti sacri e le formule magiche per i sacrifici, gli Upanishad sono invece i testi spirituali e parlano dell’anima e dell’essere uomo nel mondo. Di questa stessa epoca sono il Manusmritti o le memorie del primo uomo che definisce l’origine delle caste, il Ramayanao la storia di Rama, e il Mahabharata, la saga del grande India.
Ramayana è la storia del principe Rama, la sua obbedienza ai genitori, la sua rinuncia al regno e la sua lotta con il demone Ravana per riprendere la propria moglie Sita. Ramayana ha una forte influenza sulla cultura indiana e definisce il comportamento dell’uomo ideale come figlio, come fratello, come padre, come marito e come re. La sua moglie Sita incarna lo spirito di sacrificio e di estrema fedeltà al marito. Questa storia, di 4000 anni fa, non è solo il libro più conosciuto in India, ma è la storia viva che milioni di indiani vivono ogni anno, per dieci giorni durante l’autunno, quando gruppi locali e nazionali organizzano le rappresentazioni teatrali in tutti i quartieri e le città del paese. La sua influenza arriva fino alla Thailandia, Indonesia e Vietnam. Da bambini, nelle famiglie indù, si imparano le caratteristiche ed i comportamenti ideali dell’uomo e della donna.
Nella storia di Ramayana: da una parte si vedono le origini del sistema patriarcale, dove il ruolo della donna è subordinato all’uomo, dall’altra, il principe Rama dimostra più volte l’importanza di rispettare tutti gli uomini senza badare alle loro origini e caste. Nonostante la sua grande influenza, Ramayana, non riesce a sconfiggere il sistema delle caste e soprattutto l’oppressione di quelle più basse. La versione più popolare di questo testo oggi è quella scritta da Tulsidas nel XVI secolo.
Mahabharta è il più grande poema del mondo con più di 10.000 versi. Questo libro racconta la storia di due famiglie, i Kaurav e i Pandav, e le loro lotte. Con centinaia di caratteri e numerose storie parallele è un libro molto complesso. Si dice che tutte le storie del mondo siano già presenti in questo libro e ogni nuova storia sia solo una variazione di una trama già scritta in Mahabharata. Oggi il libero comprende il Bhagvad Ghita, il sermone di Krishna al guerriero Arjun sul senso della vita. E’ un testo spirituale molto profondo e bello che ha ispirato milioni di persone, compreso la filosofia della non-violenza di Mahatma Gandhi. Da una parte il libro spiega che il Dio è onnipresente e ogni cosa vivente e non vivente è la sua manifestazione, dall’altra si parla dell’anima come qualcosa che fa parte di Dio e che non può essere distrutta. Ghita dice: come noi cambiamo i vestiti quando sono vecchi, cosi l’anima cambia il corpo quando esso diventa vecchio, ma l’anima è immortale.
Uno dei primi testi laici è Arthashastra o l’enciclopedia dell’economia di Kautilya e risale al 250 A.C. circa. Nello stesso periodo appare il Kalidasa, uno degli scrittori antichi più conosciuti in India. Tra i suoi libri ci sono Meghdutam (la nuvola messaggera) e l’Abhigyan Shakantulam (il racconto di Shakuntala). Quest’ultimo è un libro con battute ironiche e umoristiche e racconta la storia di Shakuntala che viveva nella foresta e narra la sua storia d’amore con il re Dushyanta.
Attorno al 300 D.C. cominciano ad apparire molti altri scrittori, tra questi Banabhatta, Bharvi,Bhavabhuti, ecc. Vi sono testi buddisti scritti in Pali e nel sud dell’India vi sono capolavori come Tirukkural scritti in Tamil.
Intorno all’ VIII e XI secolo sono arrivati i turchi in India e cosi inizia un nuovo periodo di integrazione culturale. Tuttavia la scrittura in Sanskritto continua a fiorire. Cosi Somdeva scriveKathasarisagar e Jayadeva scrive Geet Govinda. Iniziano anche i primi scritti in persiano tra cuiTarikhe-e-firoz shahi e Fatwa-i-jahandari. Da una parte i poeti sufi come Amir Khusru scrivono Qir e sadagan, dall’altra, i poeti popolari come Kabir scrivono versi di profondo misticismo e di estrema semplicità. I versi di Kabir sono ancor’oggi popolari e parlano di un unico dio e del bisogno di pace tra hindu e musulmani.
Dobbiamo aspettare fino al XV secolo per la prima scrittrice donna, Mira Bai, ancora oggi ammirata e cantata. La sua poesia è profondamente romantica e nello stesso tempo alla ricerca di dio. Il libro Padmavat di Mohammed Jayasi dello stesso periodo, dimostra il sincretismo tramisticismo indù ed i poeti sufi musulmani di quest’epoca.
Scrittori moderni come Bhartendu Harishchandra e Munshi Prem Chand arrivano nella seconda metà del XVIII secolo.
Per parlare della scrittura moderna indiana vorrei focalizzare il mio discorso sulle scrittrici donne. Sono tre le scrittrici del XX secolo che hanno lasciato un forte segno sulla letteratura indiana. Tutte e tre nate all’inizio del novecento e sono Mahadevi Verma che scrive in Hindi,Mahashweta Devi in Bengalese e Amrita Pritam in Punjabi.
La scrittura di Mahadevi Verma è intrisa di romanticismo, il chayavad indiano. Mahashweta Devi invece è la voce della denuncia dell’oppressione delle tribù e delle caste basse del Bengala, mentre Amrita Pritam parla della donna, dei suoi desideri e della sua oppressione. Queste tre scrittrici sono molto diverse fra di loro e ciascuna ha profondamente segnato la storia della letteratura indiana contemporanea. Mahadevi Verma ha scritto libri semplici e profondi e non è mai stata sfiorata dallo scandalo, mentre le altre due scrittrici sono spesso state accusate di essere comuniste o oscene. Mahashweta Devi in un suo celebre libro, “La madre del 1084”, racconta la storia di una madre della piccola borghesia alla ricerca della verità sul figlio “terrorista” morto in prigione e scopre il mondo disperato degli oppressi e dei poveri e cosi inizia a capire i sentimenti del proprio figlio incompreso.
Vi sono molte altre donne scrittrici riconosciute tra le quali vorrei citare Ashapurna Devi, Krishna Sobti, Shivani, Mrinal Pande, Mehrunnissa Parvez, Maitreyi Pushpa e Alka Saraogi. Queste due ultime meritano un approfondimento. Maitreyi Pushpa per la sua narrativa piena di struggente poesia sulla vita delle donne povere e Alka Saraogi per l’ampiezza del suo racconto. Alka è l’unica scrittrice indiana della quale è stato recentemente tradotto dall’hindi in italiano un suo libro,Bypass al cuore di Calcutta.
Alla fine vorrei accennare ad un altro fenomeno: la valorizzazione della letteratura dei dalit. Dalitletteralmente significa i calpestati e sono le caste dei poveri e degli intoccabili. Negli ultimi venti anni lentamente questa letteratura è diventata un voce di sfida e di denuncia dell’ingiustizia sociale che continua a caratterizzare milioni di vite, 50 anni dopo l’indipendenza.
domenica 18 aprile 2010
Such a long journey. Rohinton Mistry
Nell’ambito della letteratura indiana contemporanea si è assistito all’emergenza di nuovi talenti, i cui romanzi hanno lasciato un segno. Uno dei più sensazionali eventi letterari del passato abbastanza recente è stata la pubblicazione di Midnight’s Children di Salman Rushdie.
L’opera, oltre a riscuotere un successo internazionale, ha influenzato un’intera generazione di giovani romanzieri indiani, che ha cercato di seguire le sue orme. Tra tutti questi scrittori uno dei più interessanti è proprio Rohinton Mistry, con il suo romanzo Such a Long Journey, scrittore emigrato in Canada, ma ancora totalmente legato alla madrepatria: l’India. Il merito maggiore di Mistry è quello di aver catturato totalmente nelle proprie opere l’affollata e movimentata vita del continente indiano.
Per questo, la sua narrazione offre un importante e ricco contributo alla letteratura anglo-indiana, a quella indiano-canadese e alla fiction della Commonwealth.
LA LETTERATURA INDIANO-CANADESE; Un recente studio di Suguna Siri (1988), riporta che tra il 1962 e il 1982, un sorprendente numero di scrittori sud-asiatici pubblica i propri lavori in inglese. Egli attribuisce il termine sud-asiatici a quei canadesi che fanno risalire le loro origini a India, Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh. Si distinguono due ondate di immigranti che dall’Asia meridionale raggiungono le coste del Canada: la prima durante la dominazione britannica; l’altra dopo l’indipendenza ottenuta dall’India.
A cold coming we had of it Just the worst time of the year For a journey, and such a long journey [...] T.S. ELIOT, Journey of the Magi.
La citazione riportata è una delle tre epigrafi che aprono il romanzo Such a Long Journey, da cui Mistry trae il titolo dell’opera stessa. È importante precisare che la scelta della parola “journey” assume, per Mistry, un significato simbolico in quanto si riferisce alla vita e alle vicende che si muovono intorno alla figura centrale del romanzo, Gustad Noble. L’esistenza di Gustad è paragonata ad un lungo viaggio durante il quale egli dovrà affrontare svariati ostacoli e difficoltà. Paradossalmente gli insuccessi e l’infrangersi di sogni e aspettative lo renderanno ancora più forte; la sua bontà d’animo e la sua fermezza costituiranno il maggiore trionfo nella vita di Gustad.
L’azione si svolge a Bombay nel 1971, l’anno della guerra tra l’India e il Pakistan. Gustad Noble, impiegato di banca vive con la famiglia nel complesso residenziale del Khodadad Building; egli è la sola voce ragionevole nella comunità, la sua pacata dignità e il suo forte senso morale spiccano tra i tanti drammi di cui sono protagonisti i suoi litigiosi vicini.
Pian piano, però, il protagonista vede la sua modesta esistenza sgretolarsi. La figlia minore, Roshan, si ammala e non guarisce, a dispetto delle cure; il figlio maggiore Sohrab, brillante studente, si ribella alle ambizioni che il padre ha per lui e se ne va di casa; il figlio minore Darius si innamora della primogenita del peggiore vicino, Mr. Rabadi. Tutto sembra sfuggire al suo controllo.
Un giorno Gustad riceve una lettera da un vecchio amico, il Maggiore Bilimoria, considerato quasi un secondo padre dai suoi figli, scomparso senza lasciare traccia e che ora lavora per un settore della CIA, operante presso il governo di Indira Gandhi. Bilimoria gli chiede di aiutarlo in quella che da principio sembra una missione eroica. Per lealtà verso l’amico, Gustad accetta, nonostante l’iniziale titubanza e la costante preoccupazione; ben presto però si ritrova complice in una impresa poco chiara che finisce per sprofondarlo in una pericolosa rete di sotterfugi.
La fine del romanzo coincide con un serie di eventi funesti: la morte, a causa di un male incurabile, dell’amico e collega di lavoro Dinshawy, la scoperta del “complotto” nei confronti del Maggiore Bilimoria e la sua improvvisa e poco chiara morte in seguito alle torture inflittegli dalle “infrastrutture governative”.
L’unico avvenimento che fa riaccendere la speranza nel cuore di Gustad è il ritorno a casa di Sohrab. In questo clima di generale disperazione si apre uno spiraglio di luce, un desiderio di attesa che vuole essere di buon auspicio non soltanto per la famiglia Noble, ma per l’intera umanità.
Gustad Noble si può definire un eroe tragico che passa da uno stato di precaria felicità alla miseria più devastante.
Al di là delle vicende personali di Gustad, sono le mille realtà e le mille figure dell’universo indiano le vere protagoniste di questa complessa e affascinante storia.
Da una prima analisi del romanzo appare evidente l’esigenza di Mistry di centralizzare la “comunità” nella sua narrativa; questa prerogativa deriva da un senso di protezione nei confronti della propria cultura. La scrittura rappresenta il modo migliore per preservarne l’integrità.
Il concetto di “comunità” è uno dei Leitmotiv della narrativa mistryana. Lo stesso tema è ripetuto, ad esempio, in Tales From Firozsha Baag, dove Mistry scrive: “With the skill of a miniature painter, the residents of the “Baag” flat, and the local colour is totally authentic”. Il complesso residenziale del Firozsha Baag è il microcosmo nel quale si svolge l’azione dei personaggi; esso è legato al ricordo della realtà indiana personalmente vissuta nel periodo della propria adolescenza.
Molti personaggi di Such a Long Journey si identificano in una collettività che ha come comune denominatore la cultura parsi; spesso però, essi presentano caratteristiche individuali proprie che li contraddistingue rendendoli unici. L’universo umano di Mistry è, difatti, ricco di figure poliedriche che spaziano da quella buffa a quella triste, da quella buona a quella malvagia. Tra i personaggi principali vanno dunque ricordati: il collega di lavoro di Gustad, Dinshawy, figura singolare con il suo umorismo e la sua maschera comica; l’amico dell’infanzia Malcolm Saldhana, che ha iniziato Gustad alla musica occidentale e ai miracoli della chiesa cattolica di Mount Mary; il Dottor Paymaster, medico di famiglia, incapace di trovare una cura giusta per la piccola Roshan e Peerbhoy Paanwala, il dispensatore di Paan e di aneddoti ai visitatori del bordello di prostitute.
venerdì 16 aprile 2010
Il dio delle piccole cose
![]() | ARUNDHATI ROY Il dio delle piccole cose |
Le ceneri di Bombay
La narrativa indo-inglese contemporanea e la tradizione britannica
Il poeta e critico indiano P. Lal ha coniato per gli scrittori indiani di lingua inglese la definizione "Alien insiders": grosso modo, lo straniero, o l'estraneo, di casa. Se l'inglese sia una lingua straniera in India è tuttora problema controverso, e Lal lo giudica uno pseudoproblema rispondendo decisamente di no. Sta di fatto che esistono letterature in lingue locali, dall'hindi al marathi o al kannada, in misura non indifferente. Quattro anni or sono a Bombay un giovane narratore marathi Vilas Sarang, mi spiego perentoriamente che la scelta dell'inglese è attardata e conservatrice, mentre una poetessa sua coetanea e tra le più significative del "new writing" indiano, Eunice De Souza, liquidò l'opinione di Sarang definendola "sciovinismo culturale''. Salman Rushdie, con il suo inglese così virtuosisticamente "ben scritto'' eppure gremito di lievitazioni indiane, rappresenta soltanto un terminale. Del resto, come ammonisce Prasad nella introduzione alla raccolta di racconti indiani di oggi, proprio in India trova inizio l'arte di raccontare.
Lal avverte però che lo scrittore indiano non può mai divorziare dai suoi miti, e chiede quindi al lettore almeno una disposizione alla complicità. Qual è la differenza tra Dharma e svadharma, tra avatara e incarnazione, quale la natura del moksha? Il letore non ha l'obbligo di saperlo, n‚ di adeguarsi alle mode spicciole dello yoga confezionato per stranieri. Tutto sommato, non esiste autentica dimensione mitico religiosa o rituale indiana all'infuori dell'lndia, del tempio sul fiume, delle processioni che si tuffano nei mare. Ma la letteratura indiana assorbe i suoi miti, ed allora si capisce quanto oziosa diventi l'elegia funebre cantata sul romanzo. Grazie a questi apporti, a queste correnti sotterranee, il romanzo acquista uno spessore e degli umori impossibili in Occidente.
Si tende ancora da parte di molta critica, e con qualche legittimità, a individuare in tre nomi il grande momento della narrativa indiana in lingua inglese: Mulk Raj Anand, nato nel 1905; R.K. Narayan, nato nel 1906, e Raja Rao, nato nel 1908 e da molti anni trasferitosi, specie di guru accademico, ad insegnare addirittura nel Texas; come si vede, personaggi ormai venerabili, anche se tuttaltro che spenti. Anand, militante indipendentista legato a Gandhi e a Nehru ma con un passato con influenze marxiste, rappresenta una fase sostanzialmente populistica e in qualche modo rivendicativa, con romanzi quali "Untouchable" (del '35), "Coolie" ('36), "The Private Life of an Indian Prince" ('53). Il socialismo urnanitario - per usare una generalizzazione approssimata - di Anand si è espresso in un paesaggio umano assai caratterizzato, con un antagonismo tra vittime, oppressori e candidi; in termini di scrittura, e anche se le giovani generazioni lo trovano datato e al fondo troppo ''leale'' nei confronti del modello linguistico inglese, egli ha infuso una sorta di scatto specie dialogico di matrice caratteristicamente indiana. All'emotività talora didattica di Anand corrisponde il basso profilo di Narayan, uno scrittore forse neutro linguisticamente ma di singolare limpidezza, capace di un singolare interscambio tra commedia e dramma solo in apparenza crepuscolare. Con Narayan la formula di Lal trova una verifica inoppugnabile: nei suoi romanzi-microcosmo, contrassegnati da una sorta di ripiegamento su un mondo indiano che tende a interrogarsi pur rifiutando bruschi cambiamenti e così a respingere le tentazioni occidentali, la mitologia indigena sostanzia dei codici estremamente sottili e ramificati. È il caso di "The Dark Room" ('38), che pone al suo centro il ruolo ambiguo e contraddittorio della donna in India, e di "The Man-Eater of Malgudi" ('61), con il trionfo emblematico di un eroe senza qualità.
Rao è probabilmente la figura di maggior spicco della letteratura indiana contemporanea, e anche il più coerente nel tentare una difficile sintesi tra la tradizione - a partire dal Ramayana - e la modernità. In "The Serpent and the Rope" ('60) questa sintesi, operata tra cadenze inglesi e ritmi di accedenza sanscrita, Rao pone a confronto India e Europa nella storia di un matrimonio misto, manovrando con straordinatia sottigliezza simboli, categorie filosofico religiose e storie private. Il precedente "Kanthapura" ('38), scritto tenendo in mente, in modo assai particolare, "Fontamara" di Silone, colloca in una piccola comunità una serie di accadimenti quotidiani con una forte carica simbolica e lirica in cui contemporaneità e passato atemporale si saldano e si scontrano.
Un panorama anche sommario non può ignorare qualche altro nome. Intanto, G.V. Desani, il più autentico innovatore tra i narratori indiani, autore di un solo ma notevolissimo romanzo, "All about H. Hatterr" ('48), lodato da T.S. Eliot, un "'caos creativo", un esempio di "linguaggio totale'', per usare il commento di Anthony Burgess: un picaresco indiano di ribalda ironia e di indifesa innocenza nel suo protagonista alla ricerca di una saggezza messa alla prova e scompaginata da uomini e circostanze. Davvero un libro chiave e di intenso divertimento. La tragedia della divisione dell'lndia con la nascita sanguinosa del Pakistan sostanzia uno dei romanzi più intensi e - è il caso di dirlo - sconvolgenti degli Anni Settanta, "Azadi" di Chaman Nahan: una vicenda costruita su un gruppo di storie familiari in cui il privato viene schiacciato e spesso fisicamente distrutto dagli sviluppi crudeli e insensati della storia. "Cry the Peacock" di Anita Desai, per rammentare soltanto una delle sue opere, apparso nel 1963, ha segnato una fase nuova nel romanzo indiano di lingua inglese, riportando situazioni e costanti ancestrali in un contesto moderno di alienazione, di vuoto, di morte. C'è da sperare che gli editori italiani, magari dopo aver drenato le marche della Mitteleuropa, si avvedano della ricchezza e della complessità della letteratura indiana, senza lasciarsi ipnotizzare soltanto dal cavallo vincente Rushdie.

PRASAD, M. (A CURA DI), Contemporary Indian-English Stories, Sterling, 1983
NARASIMHAIAH, C.D. (A CURA DI), Indian Literature of the Past Fifty Years, Prasaranga University of Mysore, 1970
NAIK, M.K. (A CURA DI), Raja Rao, Twayne, 1972
NAIK, M.K. (A CURA DI), Aspects of Indian Writing in English, Macmillan, 1979
JUSSAWALLA, ADIL (A CURA DI), New Writing in India, Penguin Books, 1974
HEMENWAY, S.I., The Novel of India, Writers' Workshop, 1975
ALBERTAZZI, SILVIA, Il tempio e il villaggio. La narrativa indo-inglese contemporanea e la tradizione britannica, Patron, 1978
recensione di Gorlier, C., L'Indice 1985, n. 5
giovedì 15 aprile 2010
La vendetta della melanzana
BULBUL SHARMA La vendetta della melanzana Bulbul Sharma è nata a Delhi, dove vive e lavora. Scrittrice e pittrice, insegna arte ai bambini disabili. Collabora al quotidiano "The Asian Age". Ha pubblicato raccolte di racconti, libri per bambini. Banana-flower, il suo primo romanzo, è pubblicato dalla nostra casa editrice. "Si è mai sentito di un prete a dieta? Dove finiremo? Manca solo che chiedano un’insalata! Quando verrà la mia ora come faranno ad aiutarmi a traversare il fiume della morte, se si nutrono solo di cibo bollito?" si era lamentata la nonna per giorni, mentre noi divoravamo gli avanzi, inclusa la parte migliore che sarebbe spettata al prete. Cibo gioioso, cibo goloso, cibo di rito, digiuno odiato. |
Storie d'amore indiane

Sudhir Kakar
Storie d'amore indiane
Questa raccolta, curata da Sudhir Kakar, l’autore di Mira e il Mahatma e di altre importanti opere della narrativa indiana contemporanea, presenta storie d’amore ambientate in ogni parte dell’India e scritte originariamente nelle più disparate lingue del subcontinente indiano: assamese, bengali, marathi, kannada, gujarati, kashmiro, malayalam e così via.
Mostra, dunque, un paesaggio variegato dell’esperienza e della concezione dell’amore nell’India contemporanea.
Un paesaggio, tuttavia, in cui avanza anche un evidente tratto comune: la fine della concezione fiabesca e romantica dell’amore che dall’antica tradizione letteraria è giunta sino al cinema indiano.
Nessuna delle storie che seguono narra di un amore puro e contrastato destinato, come a Bollywood, all’inevitabile lieto fine. In molte delle vicende al centro di questi racconti l’amore è, anzi, puro desiderio erotico o passione sovversiva che travolge le barriere sociali e precipita nell’abisso della gelosia e della violenza. E la tradizionale convinzione che la descrizione letteraria dell’amore debba essere contrassegnata dal shringara rasa, il sentimento d’amore eterno, sembra naufragare completamente in storie nelle quali la nascita stessa dell’amore comporta spesso il presagio della sua fine.
Infine, a suggellare la radicale trasformazione della concezione e dell’esperienza dell’amore nell’India contemporanea, protagoniste di questi racconti sono spesso donne, donne che sognano un amore libero da ogni restrizione sociale e inibizione interiorizzata, dalle pastoie degli obblighi famigliari e dai doveri nei confronti degli anziani e degli altri custodi delle tradizioni sociali Un sogno che appare in tinte ancora più brillanti ogni volta che, appartenendo alle caste più umili e basse della società, le donne sono estranee alla morale e ai timori delle classi elevate, e non vivono alcun conflitto tra ciò che inconsciamente desiderano e ciò che mostrano coscientemente di volere.
Kalidasa Il riconoscimento di Sakuntala
mercoledì 14 aprile 2010
la letteratura hindi nell'India post coloniale
.2 Postcoloniale e dislocazione
di Alessandra Consolaro
L’affermazione della critica postcoloniale nel mondo accademico occidentale ha avuto un impatto fortissimo sulla divulgazione della conoscenza della scrittura dell’India. Autori e tematiche indiane sono oggigiorno rappresentati come mai prima in opere enciclopediche come l’Encyclopedia of Post-colonial Literatures in English21 e lo scrittore postcoloniale per eccellenza rimane Salman Rushdie. Gayatri Chakravorty Spivak è la critica postcoloniale, per non menzionare nomi come Homi Bhabha o Amitav Ghosh. Ancora una volta, ci troviamo in un universo di lingua inglese. Ribattendo alla famosa domanda “Can the subaltern speak?”,22 la ricca e antica produzione letteraria nelle diverse lingue indiane dimostra senza dubbio che i “subalterni” dello stato coloniale hanno sempre parlato. La questione dovrebbe essere posta in altri termini: visto che parlano da secoli, perché nessuno li ascolta? E oggi, come ha detto Harish Trivedi, “Can the subaltern spivak?”, ovvero, possono i subalterni esprimersi, elaborare teorie ed essere ascoltati a livello internazionale in lingue diverse dall’inglese?23
In questa sede vogliamo presentare un approccio all’India postcoloniale focalizzandoci sulla letteratura hindi. Come si è chiarito, non si pretende con ciò di rappresentare la voce dell’India, men che meno di esaurire il discorso sulla subalternità (si è già sottolineata la posizione ambigua della lingua hindi a questo proposito). Tuttavia, data la vastità delle problematiche in esame, si è ritenuto opportuno limitare l’indagine a quello che è il nostro specifico campo di ricerca. Se per postcoloniale si intende la condizione dell’India postcoloniale, cioè le trasformazioni sociali e culturali nel passaggio dal raj ai primi anni dell’indipendenza, e se volessimo indicare un paio di romanzi in grado di fare da contraltare all’egemonia dei figli della mezzanotte, senza dubbio indicheremmo Maila anchal [Il lembo sporco] di Phanishvarnath Renu24 e Rag darbari [Musica di corte] di Shrilal Shukla25.Maila anchal fu pubblicato nel 1955 e fu immediatamente acclamato come classico. Ambientato nell’immaginario villaggio di Meriganj, è la narrazione corale di una piccola comunità di un isolato villaggio del Bihar nordorientale, dei problemi dell’apparentemente immutabile vita rurale sullo sfondo del movimento Quit India e dell’indipendenza. Rag barbari fu pubblicato nel 1968 e, nonostante sia considerato uno dei romanzi più divertenti della letteratura hindi moderna per il suo tono picaresco e satirico, è una rappresentazione molto realistica e pessimista dell’India postcoloniale, che mette a nudo con estrema raffinatezza le dinamiche sociali e politiche della vita rurale del paese immediatamente dopo l’indipendenza. Il romanzo racconta la storia di uno studente, Rangnath, che si reca al villaggio dello zio, con l’intento di prepararsi agli esami in un ambiente incontaminato e sereno. La divertita navigazione di questo ricercatore di storia attraverso la venalità della politica rurale e le connessioni di essa con la politica cittadina porta a un rovesciamento della romanticizzazione della campagna che aveva caratterizzato gran parte della letteratura hindi degli anni 1950. Lo zio del protagonista, medico e al contempo Machiavelli locale, strumentalizza tutte le istituzioni sociali, dalla scuola di villaggio, al panchayat [consiglio di villaggio], agli uffici statali e dell’amministrazione locale, per garantirsi l’egemonia e il controllo del mondo in cui vive. Lo sprovveduto studente, imbevuto di insegnamenti morali e di idealizzazioni, è costretto ad ammettere che tutta la sua istruzione è completamente inutile e impraticabile, che il mondo agreste è forse più corrotto del mondo cittadino ed è, sia letteralmente sia metaforicamente, un “mondo di fango”. Premiato dalla Sahitya Akademi nel 1969, questo romanzo sviluppa in forma di commedia un tema di molta scrittura indiana, trasversale per aree geografiche e lingue, ovvero quello di un profondo scollamento dello stato dalla popolazione, e del conseguente senso di alienazione: per fare solo un esempio, uno degli episodi descrive la “guerra santa” di un personaggio, lo Zoppo, che trascorre l’intera vita cercando invano di ottenere una copia di un atto giuridico senza pagare bustarelle. In effetti, il libro si chiude registrando il fallimento della società e delle istituzioni e indicando - sebbene ironicamente - come unica scelta possibile palayan (la fuga).
11 aprile 2010
ISHQIYA - RECENSIONE
martedì 13 aprile 2010
giovedì 8 aprile 2010
India a Genova
si svolge fino al 30 maggio 2010 “India a Genova”, una rassegna comprendente varie mostre a cura del CELSO-Istituto di Studi Orientali e con il patrocinio dell’Ambasciata dell’India e di varie istituzioni locali e culturali. Ecco una sintesi del programma:
- ADIVASI India Sconosciuta. 20 marzo – 23 Maggio 2010. Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo, Musei di Strada Nuova Palazzo Bianco Attraverso opere, oggetti, testi e fotografie uno dei capitoli meno noti della storia dell’India, il mondo degli ādivāsī, gli “abitatori originari” del subcontinente, circa 250 popoli indigeni riconosciuti nella Costituzione come “tribali”, distribuiti in quasi tutti gli stati indiani.
- ŚABDA. Il suono e la forma. 20 Marzo – 23 Maggio 2010. Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo.
In mostra una selezione di strumenti musicali della tradizione classica, popolare e tribale dalle diverse regioni dell’India.
- MITHILA . Fino al 25 Aprile 2010. Palazzo Ducale, Loggia degli Abati.
Tradizionalmente opera delle donne, l’Arte Mithilā è una delle forme più particolari, complesse e nello stesso tempo meno conosciute della cultura indiana. In un tripudio di colori ed immagini, i dipinti della tradizione Mithilā, tracciati principalmente sulle pareti esterne ed interne delle case e sul terreno, rappresentano complessi disegni astratti con valore simbolico-rituale.
- MURALS OF INDIA. Fino al 25 Aprile 2010. Palazzo Ducale, Loggia degli Abati.
La mostra fotografica presenta per la prima volta la tradizione della pittura murale indiana hindū e buddhista nel suo sviluppo cronologico.
progetto laboratorio di poesia hindi contemporanea
Lo scopo è quello che durante gli incontri, a partire dalla lettura di testi poetici hindi (in traduzione), si giunga infatti a riscritture personali in cui due culture e due lingue si fondano in giochi di suoni e vocaboli, suggestioni visive e sonore, calligrafie, metafore, simboli e stili, seguendo i fili della contemporaneità, della storia letteraria e dello spazio di diffusione della cultura indiana, tentando una suggestiva contaminazione di stili, sentimenti, culture.
mercoledì 7 aprile 2010
Al MAO di Torino una splendida mostra di miniature indiane
Al MAO di Torino una splendida mostra di miniature indiane
08/03/2010 di marco restelli
Nel nostro Paese gli spazi espositivi dedicati all’arte orientale non sono molti e spesso quei pochi – pur di grande valore – non sono abbastanza noti al grande pubblico. Perciò poco tempo fa MilleOrienti li ha “censiti” in questo post intitolato «Che spazio ha l’arte orientale in Italia? Ecco cosa c’è e cosa manca». In tale panorama, la nascita – poco più di un anno fa – del MAO è stata una gran bella notizia. La politica culturale di questo neonato museo si conferma interessante con la mostra «Miniature indiane della collezione Ducrot» che sarà aperta dal 12 marzo al 6 giugno 2010 presso il Museo d’Arte Orientale di Torino (via San Domenico 11). Si tratta di una selezione di 150 miniature indiane delle circa 250 che costituiscono la Collezione Ducrot, di cui MilleOrienti si era occupato l’anno scorso in occasione dellapubblicazione del catalogo (editore Skira).
La mostra presenta, seguendo un ordine cronologico, una panoramica degli stili e dei temi iconografici della produzione pittorica su carta che si sviluppò nell’area nord-occidentale e centrale del sub-continente indiano tra il XVII e il XIX secolo, periodo in cui alla grande potenza dell’impero musulmano Mugal si contrappose la fiera resistenza dei principi indiani Rājpūt di religione hindu.
Fra i temi iconografici più antichi rappresentati nella produzione pittorica delle corti Rājpūt si trovano le raccolte di illustrazioni di Rāgamālā, scene figurate che descrivono i modi musicali indiani, e le miniature che si ispirano alla tradizione religiosa hindū, con la raffigurazione di testi letterari e poetici, tra i quali spiccano le gesta epiche narrate nel Mahābhārata e Rāmāyana o i racconti mitici, in particolare gli amori di Kṛṣṇa con Rādhā e con le pastorelle (gopī). Parte importante della produzione pittorica Rājpūt riguarda tuttavia aspetti della vita di corte, con ritratti (anche di animali come i cavalli e gli elefanti), scene di caccia, processioni, cerimonie religiose e pitture erotiche. Per leggere altre informazioni sulla mostra cliccate qui a fianco.
La mostra è suddivisa in nove sezioni e presenta una panoramica delle miniature prodotte tra l’inizio del XII secolo e la fine del XIX secolo nelle scuole del Mewar e Marwar, di Kishanghar, Bikaner, Jaipur, Bundi e Kota, nell’India centrale e nei territori prehimalayani, definiti Pahāṛi, nonché alcune pitture di scuola Mugal e dei sultanati del Deccan. Data la diversità dei soggetti raffigurati e l’attenzione posta sulle diverse espressioni artistiche locali, all’interno delle nove sezioni l’esposizione delle tavole seguirà prevalentemente un criterio di tipo cronologico.
Le miniature di scuola Mewar, insieme ai dipinti Pahāṛi, rappresentano il nucleo più significativo della collezione, con dipinti di carattere religioso, Rāgamālā, ritratti e scene della vita di corte. Tra le opere più antiche della collezione si trova una significativa raffigurazione del Lalita Rāgiṇī, del 1610-1620, che segue di pochi anni la famosa raccolta di Rāgamālā dipinta nel 1605 dal pittore Nasiruddin. Alla seconda metà del XVII secolo e all’inizio del XVIII secolo appartengono alcune illustrazioni di carattere religioso accompagnate da un breve testo, tra cui una serie di tavole appartenenti alla sezione dell’Ayodhyā Kāṇḍa del Rāmāyana. Tra le miniature di questo periodo si trova anche una singolare tavola dipinta con la tecnica del puntinismo. Tra i dipinti che presentano ritratti e scene della vita di corte del XVIII secolo emerge una grande tavola del 1725 che presenta il Mahārāna Sangram Singh II a caccia di cinghiali: la battuta di caccia è presentata con la tecnica della narrazione continua, in cui il sovrano è ritratto prima quando giunge in una radura, poi quando trafigge il cinghiale con la freccia e infine quando riceve le congratulazioni dai cortigiani. Tra le opere tarde, della fine del XIX secolo, si annoverano una caccia del Mahārāna Sambhu Singh e un ritratto equestre di Fateh Singh, quest’ultimo opera del pittore di corte Liladhar.
Tra le opere più antiche della collezione ascritte alla scuola del Marwar emergono due dipinti Rāgamālā del 1640-1650, dal carattere semplice, con colori forti e figure stereotipate. Tra le opere del XVIII e XIX secolo si trovano in larga maggioranza ritratti di sovrani e nobili, raffigurati mentre fumano la pipa ad acqua o in scene di caccia. Nella collezione figurano solo quattro dipinti del Marwar di carattere religioso ispirati alla mitologia hindū.
Poche le miniature che appartengono alla raffinata scuola di Kishangarh. Delle otto opere appartenenti alla collezione, datate fra il XVIII e il XIX secolo, due di esse sono parzialmente dipinte. Fra i temi illustrati, oltre agli amori di Kṛṣṇa e Rādhā, soggetto principale delle miniature di Kishangarh, si trovano un Bhairavī Rāgiṇī, una scena che illustra la festa di Jhūlanā, una donna che beve vino, una scena di caccia che vede protagonista Chand Bibi, regina guerriera di Bijapur, una processione di caccia e un ricevimento fra nobili.
Le pitture della scuola di Bikaner, vere e proprie miniature di dimensioni ridotte, coprono un arco temporale che va dalla metà del XVII secolo all’inizio del XIX secolo. I dipinti presentano diverse raffigurazioni di Rāgamālā, eleganti scene narrative dove, nella tecnica e negli elementi decorativi, emerge in modo considerevole l’influenza dei pittori di corte Mugal che prestarono la loro opera alla corte di Bikaner. Oltre ai fogli di Rāgamālā si trovano due raffinati ritratti femminili, una inconsueta raffigurazione di Kṛṣṇa che danza sulla testa del serpente Kaliya incorniciata dall’elegante intreccio del corpo e delle altre teste dell’ofide e una divertente composizione di cavalli.
Le miniature della scuola di Jaipur, datate fra il XVIII e il XIX secolo – ad eccezione del ritratto in nero e oro del Raja Jai Singh I del 1650 – presentano diversi dipinti di Rāgamālā e ritratti di sovrani. Solo quattro i dipinti religiosi, di cui due presentati in mostra: un’immagine di Sadāśiva e consorte (anch’ella con cinque teste) seduti sul dorso del toro Nandin e una raffigurazione del demone Rāvaṇa.
Nella collezione Ducrot sono presenti alcuni dipinti provenienti da Bundi (XVIII secolo – inizio XIX secolo) e due disegni con processione di sovrani della scuola di Kota(1845 e 1870). Oltre a raffigurazioni di Rāgamālā e scene di caccia sono presenti due miniature dedicate agli amori di Kṛṣṇa e Rādhā e la raffigurazione di una storia popolare del Panjab, Sohni e Mahinval, di cui sono note diverse versioni.
I dipinti provenienti dall’India centrale, dove intorno al XVII secolo si svilupparono diversi principati Rājpūt, sono datati fra l’inizio del XVII secolo e il XIX secolo. Fra i soggetti compaiono diversi Rāgamālā, scene dal Rāmāyana e dal Bhāgavata Purāṇa, una raffigurazione di Kṛṣṇa che chiede perdono a Rādhā e quattro dipinti jaina di un manoscritto Kalpasūtra, con scene incentrate sulla vita di Mahāvīra.
Considerevole il numero di dipinti appartenenti alla scuola Pahāṛi, con opere datate fra il XVIII e il XIX secolo. Diversi i soggetti rappresentati: tre scene dal Rāmāyana provenienti da Nadaum (piccolo villaggio di pittori dello stato del Kangra), dipinti ispirati al ciclo di Kṛṣṇa e alle manifestazioni (avatāra) di Viṣṇu, raffigurazioni di Śiva e Pārvatī, figure di eroine (nāyikā), battaglie e scene di caccia. Un grande dipinto dal carattere sensuale presenta Rāma, Sītā e Lakṣmaṇa in esilio.